The poetic of shame di Anna Lapetina

Mio padre era un pittore. Quando ero piccola ero la sua modella preferita, corpo di strani, piccoli e ben paffuti angioletti chiamati “putti”; mi chiedeva di svestirmi, mi faceva mettere in posa, quindi scattava una foto e fissava per sempre la mia immagine nei suoi quadri.

Non c’era vergogna in me bambina nel partecipare al gioco artistico ma, anzi, una sorta di orgoglio perché così piccola già avrei avuto la mia parte di gloria nell’eternità di un dipinto (ed era motivo di vanto con i compagni di classe, per cui una bimba, Teresa, tanto insistette con i genitori che papà dovette farle un ritratto su commissione).

A distanza di anni, consapevole del corpo e dei suoi limiti, quando mi rivedo in queste spesso enormi tele che dilatano ancor più la figura cicciotta di me bambina, un po’ di vergogna mi capita di provarla… già, ma cos’è la vergogna?

E perché in italiano esiste la distinzione con il termine pudore, mentre in inglese shame non riesce a renderne la sottile differenza?

Una delle tante domande sulle quali ci siamo interrogati a Campi Salentina durante il curioso workshop teatrale The poetic of shame, condotto dal simpatico (e timido-delicato) Radek Rychcik e dal suo più perentorio (ma sincero) assistente Jakub Porcari, il secondo workshop dal progetto “La poetica della vergogna” di Reteatro41 coprodotto dalla Fondazione Matera-Basilicata 2019.

“Cast” internazionale (diciotto i partecipanti, tra cui la sottoscritta, tra Giappone, Macedonia, Canada…) per un laboratorio un po’ atipico, nel quale si è parlato tanto tanto durante i primi tre giorni (in ingleseof course, e mi è toccato anche fare da interprete, destino!), per poi dedicari ad esercizi di warming up del body liberamente condotti dagli stessi partecipanti a turno (che meraviglia la condivisione e lo stupore nell’apprendere come fanno riscaldamento dall’altra parte del mondo).

 

L’aver letteralmente sviscerato ogni possibile etimologia, uso, declinazione culturale della parola SHAME è stato un atto potente, nonostante non fosse subito agito, per mettere in campo, nuda, la nostra personale vergogna – non uso il plurale poiché in italiano potrebbe dare adito a malintesi, anche se comunque durante le performances semi-improvvisate qualche esibizione delle vergogne c’è stata – ma per poi superarla, questa sensazione a volte fastidiosa e invalidante, a volte dolce e protettiva, che, nudi dalla nascita, ci accompagna da quando qualcuno ce la fa notare, questa nudità, e decidiamo di coprirne le forme, o magari la sentiamo dentro, e in questo caso sembra non ci siano scudi che tengano…

E il teatro in tutto ciò? Ah, questo meraviglioso contenitore dove tutto è possibile, in cui realizzi che se a pensare di aver le gambe cicciotte sia una graziosa venticinquenne di Tokio allora inizi a fregartene della cellulite, e capita che durante lo spettacolo conclusivo tu decida di toglierti i pantaloni, e al diavolo la vergogna, di cosa poi?

E ancora una volta, teatro come luogo di incontro e superamento dei confini corporei ma soprattutto mentali per deragliare (senza farsi male) dai binari su cui ci fa comodo far scorrere le nostre esistenze: eh sì, ci sono vergogne che solo noi conosciamo, magari legate a un sottile senso di colpa per aver contraddetto un nostro intimo e personale imperativo etico, ma la vergogna può anche essere dolce, se protegge un ricordo lontano anni luce fissato à jamaisdentro a una cornice… Perché tra tutti i sentimenti, shame never faded.