In un teatro ci si sente sempre un po’ tutti attori. Credo sia inevitabile. Entri e la percezione di noi stessi si fa di colpo più nitida: la maschera, le nostre maschere multiple, diventano improvvisamente visibili, pesanti.
Le commedie e i drammi non scritti che si è soliti chiamare vita, la più sofisticata simulazione di realtà concepita dal sogno e dal caso, evocati dall’arte si materializzano infatti, improvvisi e scarnificati, sulla scabrosa nudità lignea di un palcoscenico. Inafferrabile e inquietante come un paradosso che affascina, il vissuto individuale diventa così di colpo visibile, collettivo, rappresentabile. Dopo tutto, non si ride mai solo degli altri così come non si piange mai solo per se stessi. Suggestione? Può darsi.
Intanto gli specchi nel foyer, come concierge navigati, riflettono con te, di te. Sarà per questo che li montano?

Sarà anche per questo che non stupisce affatto intravedere tra il velluto delle tende e l’ultimo saluto su Facebook la follia disillusa di Blanche DuBois, un incubo felliniano vestito da donna spezzata. La finzione prima della finzione, la prima faccia del prisma metateatrale plasmato da Gommalacca Teatro, la sottile linea di tensione che incornicerà tutta la visione registica.

Dentro, la scena minimale allestita con mattoncini Lego di taglia adulta, sembra invitare al gioco serio della recitazione spezzando gli schemi mentali della tradizione con un sorriso inquietante. Poi, arriva Eduardo.
Diceva Franco Parenti che […] il testo di Uomo e galantuomo è la testimonianza di un fatto d’arte che trascende continuamente la pagina scritta, testimonianza che può solo fissare alcuni spunti operativi, la regola del gioco. E forse tutti i testi teatrali sono altrettante testimonianze, sono quella parte che l’arte del teatro permette possa essere trascritta.
E non a caso credo, l’azione prende l’avvio proprio con una trascendenza: la sbilenca ed esilarante prova che l’improbabile compagnia teatrale ‘L’eclettica’ tenta di fare de la Mala nova di Libero Bovio, classico dramma a tinte forti, che l’insipienza troppo contaminata di quotidiano dei protagonisti riuscirà in breve a trasformare in farsa.

A partire da questo momento, assisterò o meglio, (com)parteciperò, allo smontaggio e al rimontaggio sistematico del meccanismo narrativo. E la recitazione, sfidando la sapienza teatrale di ciascuno, irromperà confidenziale, ineludibile e insinuante nell’aplomb borghese e domenicale del pubblico in sala.
La pazzia, la policromia del desiderio, l’arte atavica di arrangiarsi, il dolore senza ritorno, la solitudine, l’ironia acre del fallimento, le paure inconfessate e l’umorismo senza ilarità…la vita insomma, che diventa romanzo teatrale, un copione condiviso e senza finale.
Sullo sfondo, oracolare, sprezzante e splendidamente femmina, una Donna Clotilde che tanto sarebbe piaciuta a Klimt dipinge l’umanità sulla tela blues di Duke Ellington. E pazienza se qualcuno proprio non sa resistere alla sconsolante banalità, così social, di farsi un selfie con il palco… Anche questo è teatro, o no?.

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